giovedì 9 febbraio 2012

A piedi da Trieste a Promontore attraversando l’Istria



Partire. Fare l'Istria a piedi. La bisettrice del Triangolo, un tiro di schioppo da Trieste a Promontore. Prendere le misure di questo pezzo di mondo a estate finita, con la malinconia e l'odore di uva nell'aria. E il lusso di un tuffo laggiù, dopo chilometri di sudore. In fondo ai faraglioni, Sud perfetto, verso il faro di Porer.
L'idea fermenta per mesi, talvolta anni. Poi la decisione si prende in due ore. Capita che il tempo ci sia, una finestra che non si ripresenterà più. Capita che il tempo sia buono e che, in aggiunta, il corpo dia segnali di insubordinazione. Perdita delle chiavi di casa, insonnia, voglia di bastonare un tizio solo per come cammina. Allora è tempo di andare.
Niente più alibi. Mezza giornata per fare il sacco e via. Il materiale buttato sul letto, sempre troppo, e lo zaino che non si chiude. Scarpe leggere, un chilo di frutta secca, due borracce. Un piccolo computer per scrivere la storia in diretta. Parto senza avere allertato nessuno. Sarò un perfetto sconosciuto. Un bagno di umiltà. Chissà cosa mi dirà la strada.
L'indomani alba pulita. Certezza di dimenticare qualcosa. Ore 7.20 via Carducci, bus numero 40 per Prebenico, il posto giusto per partire, sulla frontiera, alto sulla valle dell'Ospo. Da lì si infila meglio il crinale dei monti della Vena. Mi aspettano Sergio Ollivier e Marco Rodriguez per accompagnarmi fino a Gracisce, prima tappa. Li vedo e penso che sono matto. Ho 63 anni.
Strappo per San Servolo, traversata su Kastelec, ultimo caffé fatto in casa da Vlado e Marija. Qui l'autostrada per Capodistria è in tunnel, si va oltre agevolmente per una collinetta dietro il paese. Radure, rimboschimenti, una immensa cava. Marco mi ha dato un bastone ferrato di ciliegio. Mi fa prendere il passo transumante che ho imparato dai mandriani del Molise. Si fanno distanze enormi con quel ritmo lento.
Troppi pini, troppi chilometri senza orizzonte. Ma, presso i paesi, settembre regala frutta a volontà. Fichi, prugne, noci, more. Rigoni Stern fece mezza Europa a piedi nutrendosi così. Ma allora le campagne erano abitate: trovavi carrettieri, pastori, viandanti. Noi non troviamo anima viva. Se sei solo e ti rompi una gamba, ti ritrovano dopo un mese. Mentalmente, Trieste è a mille chilometri.
Lungo il ciglione arriviamo alla rupe vertiginosa, torva, di San Sergio, Crni Kal. Il castelletto in cima è stato addomesticato da una passerella. In basso, nella foresta, il paese col campanile storto. Sullo strapiombo, due rocciatori appesi al nulla. Il rombo lontano dell'autostrada che ci ha seguito fino a ora, finalmente si attenua.
Gran giornata. Vista immensa: alti a Nordest il Taiano e la Sbevnica; a Sudovest, oltre il vallone del Risano, i colli che portano a Covedo e, oltre, a Portole e Stridone. Il ciglione è tagliato dalla ferrovia per Capodistria e il binario si tuffa in un dislivello pazzesco. Un solo binario, un collo d'oca. Ma l'andirivieni è impressionante, tutta l'economia slovena passa per queste Termopili. Mi chiedo cosa accadrà quando verrà il doppio binario, se Trieste continuerà a fottersene del suo porto.
Direzione Podpec, paese sovrastato da strapiombi e da una torre di difesa, ultima vedetta sul mare lontano. Il ciglione qui è magnifico, simile a quello fra San Lorenzo e Sant'Elia sopra la Rosandra. Landa, pettinata dalla bora. Cespugli di profumato santoregio. Voglia di birra che comincia a crescere. Voglia matta di mare, anche. Ora non lo vedrò per chissà quanto tempo. Supplizio di Tantalo, si dice.
A Podpec mi butto su una panca sotto un tiglio, i piedi alti su un muretto. La seconda borraccia è già agli sgoccioli; camminando si beve il doppio e si mangia la metà. Nel silenzio sento mille rumori. Due donne che chiacchierano. Una radiolina. Un maiale che grufola. Mi sento già in Bosnia. Ma le falesie contorte somigliano anche alle Dolomiti Lucane.
Tagliamo su Hrastovlje, paralleli alle ferrovia. Sono le due del pomeriggio, e il paese è in fregola da vendemmia. Due vecchi ci invitano ad assaggiare il primo succo spremuto. Ma noi è la birra che cerchiamo, nell'osteria in fondo al paese. Cinque birre in tre, prosciutto e peperoni sottaceto. Ollivier è felice, un simpatico chiacchierone che andandosene, stasera, mi getterà in un silenzio ancor più insopportabile.
Dopo la birra, la salita per Gracisce – 250 metri di dislivello nel pietrame – ci pare un purgatorio, ma sul crinale un'alta torre di vedetta consente di riassumere tutta la tappa in un unico colpo d'occhio. Marco è incantato, farebbe carte false per continuare la strada domani. E io farò più fatica a star solo dopo tanta compagnia.
Locanda con alloggio sullo stradone, di fronte alla cappelletta di Santa Maria del Soccorso. Dormirò qui. Una donna mi offre un grappolo appena colto. Scende il silenzio. Alle cinque il traffico è già azzerato. Nubi rosa, luna color pergamena, brume azzurre, bosco di un verde profondo. Odore di campagna di una volta, mare che pare un miraggio.
Ho le labbra secche, mi riaffiora una poesia di Mevlana: «La secchezza delle tue labbra è un messaggio dell'acqua». Abbiamo attraversato terre carsiche, dove l'acqua è un dono di Dio forse più che altrove. Marco è certo che qui ci sia un legame fra il culto delle fonti e quello della Vergine santissima.
Dormirò di sonno esausto, profondo e regolare, non disturbato da piccoli risvegli. L'indomani frontiera verso Pinguente; una frontiera rognosa, perché la sbarra croata e quella slovena distano più di tre chilometri d'asfalto. Non ho nessuna voglia di percorrerli in ossequio ai burocrati. Ho in mente un'uscita clandestina, sopra una fascia di rocce a picco.
Speriamo bene. In camera mi accorgo che un “mandriol” verde smeraldo si è posato sul mio sacco rosso e non se ne vuole andare.