venerdì 12 ottobre 2012

Massimo Carlotto, Nordest



1989 - una città del Nordest.

L'imputato aveva il labbro spaccato, gli occhi pesti, il naso rotto e gonfio con due tamponi emostatici che spuntavano dalle narici e lo costringevano a respirare con la bocca. I due agenti della polizia penitenziaria che lo sorreggevano dovettero aiutarlo a sedersi. Era conciato male.
Il giudice, seccato, guardò l'avvocato per cercare di capire se avrebbe tentato di rinviare l'interrogatorio. L'altro lo rassicurò alzando le spalle. Il suo cliente aveva ben altri problemi a cui pensare.Il giudice, sollevato, dettò al cancelliere le generalità dei presenti e chiese all'imputato se intendeva sottoporsi all'interrogatorio.
Raffaello Beggiato si voltò verso il difensore che lo incoraggiò con un plateale cenno della mano. "Sì" rispose a fatica. La bocca gli faceva male, i pugni degli sbirri gli avevano fatto saltare qualche dente e si era morso la lingua quando gli avevano strizzato i testicoli. Ma nemmeno lui aveva voglia di lamentarsi. Le percosse facevano parte del trattamento riservato agli arrestati in flagranza. L'intensità variava a seconda del reato. E il suo era di quelli che autorizzavano chiunque indossasse una divisa a rompergli il muso. Mentre era in questura, nella stanza dove lo avevano ammanettato a una sedia, erano entrati anche sbirri di altri reparti per il solo gusto di tirargli un cazzotto o sputargli in faccia. Beggiato non se l'era presa più di tanto, in fondo erano le regole del gioco. Aveva solo sperato che lo portassero in carcere alla svelta. Lì nessuno lo avrebbe toccato e avrebbe potuto concentrarsi per trovare una via d'uscita. Magari lo scopino del reparto isolamento era una vecchia conoscenza e gli avrebbe procurato un po' di coca. Ne aveva bisogno per recuperare forza e lucidità.Invece non si era fatto vivo nessuno e l'appuntato dell'infermeria si era rifiutato di somministrargli un antidolorifico. Aveva trascorso quattro ore disteso sulla branda a fissare la lampadina che pendeva dal soffitto soffrendo come un cane e pensando all'interrogatorio. Alla fine si era reso conto che nemmeno una buona sniffata gli avrebbe fatto venire in mente una soluzione decente.
Il giudice riassunse il caso ma l'imputato non lo ascoltò. Sapeva bene come erano andate le cose. Lui e il suo complice avevano studiato il colpo per un paio di settimane. Sembrava un lavoretto facile. Avevano deciso di vestirsi allo stesso modo per dare un tocco di originalità alla rapina; avevano comprato due passamontagna da motociclisti in seta e due completi in velluto di colore nero. Le armi se le erano procurate da un pezzo e le avevano già usate per ripulire un paio di uffici postali e le casse di tre supermercati. Il giorno prescelto avevano atteso che il gioielliere e sua moglie aprissero la porta blindata dopo la pausa pomeridiana. Erano spuntati all'improvviso alle loro spalle e li avevano spinti nel negozio. Il commerciante aveva detto le solite cazzate ma si era fatto disarmare e aveva aperto la vecchia cassaforte Conforti senza tante storie. Era strapiena di oro lavorato e pietre di prima scelta. Gioielli nuovi e di "antiquariato", termine sofisticato usato dai proprietari per coprire l'attività clandestina di banco di pegni del negozio. Merce che non appariva in nessun registro e che avrebbero evitato con cura di menzionare nella lista dei preziosi rapinati.
Lui e il suo complice avevano impiegato una decina di minuti per riempire le borse. Abbastanza perché arrivasse una pattuglia della polizia. La moglie aveva premuto un bottone d'allarme di cui loro non sapevano nulla. Il basista aveva giurato che non c'era nessun allarme nascosto ma in realtà non aveva controllato. Mai fidarsi degli incensurati che iniziano a commettere reati per pagarsi i debiti di gioco. Affrontano la vita come se fosse una partita a dadi, affidandosi alla fortuna e a una manciata di probabilità.
Si erano guardati negli occhi. "Fanculo gli sbirri" aveva detto il suo socio.
"Fanculo tutti" aveva detto lui.
Il bottino era di quelli che ti sistema per la vita e valeva il rischio. Forse, se non fossero stati strafatti di coca si sarebbero arresi limitando i danni, ma in quel momento i pensieri, nel cervello, viaggiavano veloci e sicuri in un'orbita troppo lontana dal buon senso.
Lui aveva afferrato la moglie del gioielliere per il collo e l'aveva spinta fuori dal negozio puntandole la pistola alla testa.Il complice aveva tramortito il proprietario ed era uscito portando con sé le borse con i preziosi. Tutti avevano iniziato a urlare. Loro, gli sbirri, l'ostaggio e i passanti. I due non sapevano cosa fare. Una macchina gialla era spuntata all'improvviso da una traversa e si era ritrovata nel bel mezzo del casino, a dividere buoni e cattivi.
Ne avevano approfittato. Dopo aver gettato a terra l'ostaggio si erano precipitati a spalancare le portiere della macchina. Al volante c'era una donna con il volto deformato dallo stupore, sul sedile posteriore un bambino che chiedeva alla mamma cosa stava succedendo.
Erano bastati pochi secondi per impadronirsi della vettura e fuggire con i nuovi ostaggi. Qualche centinaio di metri dopo la macchina era stata bloccata dalle pattuglie di rinforzo.Lui era sceso con il bambino minacciando di sparargli se non li avessero lasciati passare, e quando si era convinto che gli sbirri non avevano nessuna intenzione di obbedire aveva tirato il grilletto. Il proiettile era entrato tra il collo e la spalla e aveva attraversato il corpo, uscendo da un fianco. Il bambino si era afflosciato sull'asfalto. L'urlo della madre aveva sovrastato per un attimo ogni rumore.
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