giovedì 22 dicembre 2011
Carla Coco, Venezia in cucina
La Castradina S'ciavona
Possiamo solo immaginare Riva degli Schiavoni brulicante di gente proveniente da tutto l'Adriatico, che scaricava merci dai trabacoli, le tipiche barche da trasporto. Provenivano dalla Schiavonia, luogo dai confini incerti che abbracciava la Dalmazia, la Bosnia, l'Albania. Erano battelli veloci di piccolo cabotaggio, che si possono paragonare ai corrieri moderni, i cosiddetti 'padroncini' che muovono gran parte delle merci in questa nostra epoca.
Favoriti dalle esenzioni daziali stabilite dalla Repubblica, gli schiavoni trasportano derrate alimentari in gran quantità tanto da provocare una lenta ma inesorabile mutazione del gusto. In molti piatti lagunari si sente profumo di Dalmazia, dai risi in cavroman, in cui si combinano riso e castrato tagliato a pezzetti, al castrà in umido con patate, passando per l'agnello all'orientale, arrostito dopo essere stato ben unto con burro e latte.
Tra tutti gli alimenti ne rimane uno che ancora oggi racchiude in sé il seme della storia passata e il simbolismo religioso dei veneziani: la castradina s'ciavona. Un piatto evocativo delle perdute terre d'oltremare, che in fin dei conti erano considerate 'altre Venezie' più che territori occupati. Discorso lungo che ci porterebbe lontano, a parlare di ciò che era la venezianità lungo le coste dell'Adriatico: un solo respiro sincrono con il Dogado.
Ma torniamo alla nostra castradina, che viene consumata il 21 novembre di ogni anno, da quando cioè la Repubblica istituì la festa della Madonna della Salute nel 1631. E quando si tratta di salute i veneziani non scherzano. Se ad ogni fine di pestilenza, pur stremati, s'indebitavano per creare i più bei templi votivi, figuriamoci se era un problema far arrivare dalla Dalmazia carne salata, affumicata ed essiccata di giovane montone castrato. In pratica, un concentrato delle buone tecniche di conservazione allora conosciute, in grado di superare indenne il periodo di quarantena, e questo anche in epoca di emergenza sanitaria.
Un cibo forèsto con l'evidente compito di scacciare 'il male' in favore della 'salute'; ma lasciamo la descrizione del piatto ad Elio Zorzi nelle sue Osterie veneziane, datato 1928: «Della castradina si parla in uno dei più antichi documenti della Repubblica: nel calmiere del doge Sebastiano Ziani nel 1173 non si nomina proprio la castradina, ma si parla di sicce carnis de romania et sciavinia. E infatti la castradina non è che la carne dei montoni tagliati per metà nel senso della lunghezza, salati prima, affumicati poi, lasciati seccare al sole e infine stagionati nei fondachi e nelle stive».
Come e quando un cibo così tipicamente balcanico sia entrato in una delle feste religiose più sentite dai veneziani è difficile stabilirlo con certezza. Comunque sia, la ricetta ci è stata tramandata, ovviamente con delle varianti, essendo nel frattempo venuti meno trabaccoli e mercanti dalmati.
Una buona castradina con le verze ha bisogno innanzitutto di tempo. Si lascia la carne a bagno per un giorno in acqua, si taglia a pezzetti e si mette sul fuoco con un po' d'olio d'oliva, che sostituisce lo strutto, si aggiungono le verze nere e si fa sobbollire, senza fretta, fino a quando la carne non diventa tenera.
Si tratta quindi di carne bollita, quasi una zuppa, una çiorba balcanica, dove la materia prima subisce ancora oggi il trattamento antico della conservazione con sale, ginepro, rosmarino, alloro, coriandolo, cipolle e carote. Le carni non provengono più dalla Dalmazia ma da Sauris, e bisogna dire che l'aria così favorevole ai prosciutti giova ai cosciotti del giovane montone. Non si può non essere d'accordo con Zorzi. Mentre le ultime tracce degli antichi legami tra Venezia e il suo Levante declinavano, rimaneva la castradina, ultimo residuo commestibile d'una tradizione imperiale.
brulicante: pieno di persone che si muovono contemporaneamente
piccolo cabotaggio: che compiono navigazione lungo la costa fermandosi in porto in porto
esenzioni daziali: che non pagavano le tasse
derrate: prodotti alimentari di origine agricola
in umido: stufato, cotto con un liquido con un coperchio e a fiamma bassa
Dogado: dominio del Doge o dela Repubblica
pestilenza: epidemia di peste (peste: grave malattia contagiosa)
s'indebitavano: si riempivano di debiti
tempio votivo: che rappresenta un voto religioso
montone castrato: il maschio della pecora castrato per farlo ingrassare
indenne: senza danni, senza problemi
quarantena: periodo di isolamento di quaranta giorni
fondachi: magazzini per metterele merci nei palazzi veneziani
strutto: grasso ricavato dal maiale
sobbollire: bollire
cosciotti: coscie, parti della zampa dell'animale
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giovedì 15 dicembre 2011
Alla larga da Venezia
Origano e liquore d'oppio
Da Venezia il convoglio di navi per Candia partì il 20 marzo, come aveva previsto Stae. All'alba di quel giorno Aloìsius era pronto sul molo di San Marco. Aveva con sé un piccolo bagaglio, una sacca di camoscio che conservava dai tempi della sua gioventù in Baviera. Gli ultimi oggetti deposti in quella sacca prima di lasciare casa Grimani furono un grosso quaderno intonso e l'astuccio di scrittura. Perché si era ripromesso da allora in poi di annotare con cura gli avvenimenti della sua nuova vita.
Dal diario di Aloìsius Mòsele.
Candia, 5 aprile 1431.
Libero! Lasciata Venezia, dopo quattordici fortunati giorni di navigazione ieri sono sbarcato a Candia. E d'ora in avanti, quaderno mio, ti affiderò i resoconti dei fatti che mi capiteranno, tra i più ragguardevoli. Ma anche le mie suggestioni e i miei pensieri, pur senza voler rispettare a ogni costo la precisione marinara: così mi raccomandò stamane il patron Piero Quirino.
Nel segno dell'antica amicizia con mio padre, Quirino mi ha accolto con l'affetto e il calore che mi attendevo da un gentiluomo par suo. Mi ha subito ricordato che sulla nave già gli scrivani Cristofalo Fioravante e Nicolò Michiel saranno imbarcati, tal che io sarò libero di annotare resoconti secondo la mia vena, e dovrò sopperire innanzi tutto alle necessità di medicina e chirurgia. Ciò perché il mio patron non ha avuto il tempo di aspettare la conclusione del bando del Senato in Venezia per i medici di bordo destinati ai viaggi fuori di Gibilterra. Rammentando le mie attitudini in materia sanitaria, ha colto l'occasione di attribuirmi generosamente l'incarico con la stessa mercede che toccherebbe a un chirurgo titolato, oltre alla panatica e alle spese comuni di vestiario. Più di quanto ricevessi come precettore in casa del gentiluomo Grimani.
Ho già assolto il primo incarico ricevuto in questa mia nuova veste grazie al fornitissimo fondaco di messer Kastoria, illustre speziale di Candia, approvvigionando il baule sanitario della Gemma secondo il ricordo degli armadi del medico Bartolo Chiarugi, da me tante volte riordinati in Verona.
Anzitutto ho acquistato trecento once di elleboro negro in radice, che all'occorrenza preparato in liquore per bagnature risana da rogna, scabbia, sversamenti nascosti di sangue, croste infette, pidocchi e se bevuto in piccolissima quantità libera dai vermi.
Quindi ho provveduto a rifornirmi di sei ampolle di elisir composto da miele e ambra, zucchero rosato di borragine, scorze di cedro, genziana, semi del dauco di Candia, coralli rossi e bianchi, polpa di tamarindo, rabarbaro: elisir da prendersi in caso di doglie di testa, vomito, dolori di schiena e infezioni agli occhi, non più di una dramma al giorno.
Ho poi stivato in ventiquattro cassellette altre medicine utili:
Verbasco emolliente
Origano antispasmodico
Pimpinella e radici di liquirizia per impiastri astringenti
Caccole e liquore d'oppio per mitigare dolori
Ribes e borragine per placare la diarrea
Marrubio ed edera per risvegliare il fegato e contro catarri e indigestioni
Semi di cucurbita e arnica a lenir contusioni
Calendola per i geloni
Asparago a scioglier le urine
Senna e ricino purgativi
Foglie di melograno contro i vermi maggiori
Asfodelo per disturbi agli occhi e sordità
Vischio e artemisia a contrastar l'epilessia
Corteccia di salice nero che sciolta in vino rosa combatte pensieri ossessivi e onanismo.
Voglia il Signor Dio che non abbia dimenticato null'altro di utile. E similmente voglia che l'equipaggio debba ricorrere il meno possibile ai miei servigi medici nel lungo viaggio per Fiandra.
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venerdì 7 ottobre 2011
Andrea Molesini, Non tutti i bastardi sono di Vienna
Il Terzo Fidanzato della nonna aveva i piedi troppo grandi per essere considerato intelligente. Scemo non era, perché sapeva oziare con grazia e costanza, ma, date le dimensioni dei piedi, l’attenzione riservata alla sua testa non poteva essere molta. Il nonno Guglielmo, che vantava diverse amanti, diceva che quello – il rivale non lo chiamava mai per nome – parlava solo per dare aria alla bocca: «Agli stupidi piace mettere la stupidità in vetrina, e non c’è niente di meglio della parola per questo».
Al nonno piaceva incasellare in sentenze le cose del mondo. Sentenziava masticando il sigaro e fingendo un’aria da marinaio di molti mari, proprio lui che odiava l’acqua, non esclusa quella del lavabo. Liberale di ferro, beffeggiava le blande simpatie socialiste della nonna:
«Chiudi tre dei tuoi in una stanza e dopo mezz’ora avranno quattro opinioni differenti». Passava molte ore del giorno a scrivere un romanzo che non finiva mai, ma secondo la nonna non aveva mai scritto un rigo: «È una posa per tenere a distanza mocciosi e villani ». Nessuno, però, osava forzare il Pensatoio, lo stanzino dove il nonno passava quasi tutto il giorno, tranne quando pioveva, perché allora usciva a passeggiare senza l’ombrello, solo, con il cappello di feltro dalla tesa slabbrata. Era buddista, ma di Budda non sapeva un granché. Però capiva di briscola e di storia e scriveva lettere al Gazzettino, mai pubblicate perché coprivano d’insulti gli amministratori della città lagunare: tutti «sozzi figli di preti sciocchi», a sentir lui.
La nonna, invece, spumeggiava su tutto. Se c’era da spendere mezza lira diceva: «Meglio di no», e quel meglio di no capitava due dozzine di volte al giorno. A dispetto dei suoi settant’anni, era alta e diritta, forte e bella, una pantera canuta. Il suo bagno era un poema: ornato di clisteri beige, ocra, neri e tinta pelle. Ce n’erano due o tre su ogni braccio dell’appendiabiti di smalto, mentre pigiami e mutande erano relegati in un comò verde, dove una ciotola di vetro di Murano ospitava una decina di collane di perle matte e di murrine. I clisteri, nei giorni della loro gloria, raggiunsero il numero di sedici, con le quattro perette da un 1/4, da 1/2, da 3/4 e da litro. Le sacche erano tondeggianti, a pera, a zucca, a cantalupo, tutte di tela cerata, e i tubi di gomma opaca sembravano, riflessi nel pallore del mosaico, tentacoli di creature marine dai becchi ricurvi.
I tre domestici – Teresa, la figlia Loretta, e Renato – facevano per sei. Loretta, ventenne, era belloccia, e aveva gli occhi storti, che guardavano in basso, ma quando te li puntava addosso sapevi che ti odiavano, e che altro non sapevano fare. Renato aveva una gamba un po’ più corta dell’altra, e zoppicava. Era il mio preferito e sapeva fare di tutto, pescare nel fiume con fiocina e coltello, ma anche spiumare il pollo destinato alla casseruola di Teresa. E lei, Teresa, era un portento. Brutta di una bruttezza rara, aveva cinquant’anni ben portati ed era più forte di un mulo, e non meno cocciuta. Zia Maria – Donna Maria per gli estranei – era invece di bell’aspetto, prigioniera di una fierezza che affascinava e allontanava gli uomini: veniva corteggiata con discrezione anche dagli spiriti più appassionati e audaci, una non piccola condanna. E poi c’era Giulia. Giulia era matta, bella, rossa. Uno schiaffo di lentiggini. Era fuggita da Venezia per uno scandalo di cui nessuno osava parlare: in paese c’era più di qualcuno che, nel vederla passare, sputava per terra, e non mancavano le beghine che si facevano il segno della croce per scacciare Pape Satàn. Aveva sei anni più di me e al suo apparire arrossivo, anche da lontano. Non stava in manicomio perché era una Candiani, e i signori – in quegli anni, almeno – non finivano in gattabuia, e non erano nemmeno matti, semmai eccentrici: un signore era cleptomane, non ladro, e una signora ninfomane, mai puttana. Quella notte del 9 novembre, quando i tedeschi s’impossessarono della mia stanza, andai a dormire nella soffitta, uno stanzone di nove metri per cinque, con quattro abbaini e le capriate di larice che mi costringevano a tener bassa la testa. Là condivisi con il nonno uno stramazzo buttato sulle assi del solaio, che erano tutte una scheggia, mentre alla nonna fu permesso di restare in camera sua.
La sconfitta dell’esercito italiano era una vergogna che ogni soldato invasore ci gettava in faccia: io avevo diciassette anni, quasi diciotto, e vedere il nemico spadroneggiare in casa mia era insopportabile. Quelli del ’99 erano già in trincea: pochi mesi e sarebbe toccato a me. «Manca poco e sono a Roma a liberare il Papa, così dicono loro, eh… tra felloni se la intendono, dico io».
Il nonno considerava i preti un gradino – piuttosto piccolo– sopra gli agenti delle tasse: «Quei figuri in gonnella hanno l’immaginazione di un tacchino, ma l’astuzia della volpe e del serpente, sono loro la grande beffa del creato, altro che le piaghe di Giobbe… vedi, Budda non ha preti» mi guardò dritto negli occhi, cosa che faceva di rado da quando avevo perso i genitori, «o se li ha non sono austriacanti». Si sputò nel palmo della mano, che ripulì nel vasto fazzoletto. A me il nonno piaceva. Dalla berretta da notte si separava solo, e a malincuore, verso le dieci del mattino.
Quella notte, però, se l’era svignata senza la sua berretta. Un fante e un caporale l’avevano legato a una sedia e l’uno premendogli il calcio del fucile sullo sterno, l’altro accarezzandogli la gola con la lama della baionetta, gli avevano fatto dire il nascondiglio delle gioie. Fortuna che la nonna, a sua insaputa, era riuscita a infilare le cose più preziose – e una manciata di sterline d’oro – nella sacca di uno dei suoi clisteri, oggetti troppo umili, e troppo prossimi alla merda per solleticare l’appetito dei predoni. «Sono preoccupato per Maria… certo, se c’è qualcuno che può spaventare un tedesco è lei» disse il nonno, accasciandosi sullo stramazzo. I cartocci di pannocchia scricchiolarono sotto il suo peso. Fissava le travi con gli occhi umidi, ma non voleva farmi sentire la sua paura: le nostre vite, le nostre cose, tutto era in balìa del nemico. «Guerra e bottino sono i soli sposi fedeli» disse. Mi sistemai accanto a lui. Il nonno voleva bene alla zia, «è una donna di piglio e di grazia» diceva. Era la figlia di suo fratello, scomparso nel naufragio dell’Empress of Ireland, nel maggio del ’14, insieme alla moglie e ai miei genitori, in quel viaggio che tutti, in famiglia, chiamavamo la «Grande Sciagura». Da allora le erano stati affidati gli affari della villa, forse perché alla mia educazione si dedicava, sia pure con svogliata costanza, la nonna. «L’hai mai guardata bene negli occhi, tua zia? Sono verdi, fermi come sassi. Lo sai cosa dicono i marinai? Dicono che quando l’acqua si fa verde la tempesta t’inghiotte». Il nonno non era mai stato in mare, ma i suoi discorsi erano infarciti di detti e imprecazioni da capitano di lungo corso: «alla via così», «duri i banchi», «se t’acchiappo t’impicco all’albero dimaestra», frase, quest’ultima, che aveva bandito dal suo dire da quando, subito dopo la Grande Sciagura, aveva preteso che gli dessi del tu.
Erano tutti diventati molto gentili con me dopo il naufragio dell’Empress, e io ne avevo approfittato per godermela; il bello è che non ne avevo sofferto, non come ci si aspettava, almeno. I genitori, per me, erano degli estranei, o quasi. Mi avevano mandato in collegio per togliersi dai piedi un problema, o perché – volendo essere benevoli – pensavano che l’educazione dei giovani fosse un affare a cui padre e madre sono inadatti. Il mio collegio era dei domenicani e i padri consideravanola salute del corpo importante almeno quanto quella dell’anima, su cui erano – e la cosa stupiva non poco – propensi ad ammettere una certa ignoranza. Nel giorno fatale il preside – uno studioso di San Domenico di Guzmán, che a noi ragazzi sembrava centenario per via della barba bianchissima e della curvatura della schiena – mi mandò a chiamare. Il suo ufficio, foderato di grossi libri di cuoio, misurava tre passi per quattro: lì il puzzo di muffa, di carta, d’inchiostro, d’ascella e di grappa si contendevano il campo. Sollevò la fronte dal manoscritto che stava consultando, e mi squadrò con tutto l’azzurro dei suoi occhi, ingigantito dalle lenti: «Sedete, giovanotto». Non fece preamboli, e non annacquò la notizia con dicerie sulla vita eterna. Parlava con voce ferma, senza una pausa. Non cercai di fingermi addolorato, dissi: «Non sentirò la loro mancanza». Strinse le palpebre e mi fissò con la faccia dura.«Certe cose si capiscono dopo», disse prima di ricacciare il naso nel manoscritto. Forse non mi sentì nemmeno uscire, ma quelle sue parole mi rimasero dentro: aveva ragione lui, il colpo venne dopo, la ferita si aprì un poco alla volta e un poco alla volta si rimarginò.
oziare: passare il tempo senza far nulla
vantava: diceva di avere
dar aria alla bocca: parlare senza aver nulla da dire
sentenze: frasi fatte, con un senso definitivo
beffeggiava: prendeva in giro
blande: molto moderate
posa: atteggiamento
mocciosi: bambini
villani: maleducati
tesa: la parte del cappello che protegge dal sole o dalla pioggia
slabbrata: consumata
briscola: gioco a carte
sozzi: sporchi
canuta: dai capelli bianchi
clistere: l'attrezzo per liberare l'ultimo tratto dell'intestino da feci, in genera una piccola pompa
a cantalupo: a forma di melone
fiocina: attrezzo a forma di tridente
casseruola: tipo di pentola
cocciuta: testarda
gattabuia: testarda
stramazzo: materasso
felloni: traditori
austriacanti: sostenitori dell'occupazione austriaca
fante: soldato semplice
cartocci di pannocchia: un tempo i materassi erano imbottiti di foglie di mais
essere in balìa: dipendere
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mercoledì 24 agosto 2011
Il Milione di Marco Paolini
Marco Paolini, Tappeti
Anch’io all’inizio di questa storia ho fatto tappeti di
parole. Non c’è mai stata una storia, così dovevo intrecciare
trame, facendo un groppo ogni tanto per non perdere
il filo. Non puzzavano di cammello ma di inchiostro, e
dovevano via via perdere ogni traccia di scrittura per diventare
parola.
La prima nota sul mio quaderno di lavoro è del marzo
1996. Dice solo questo.
Portolano si diceva anche carta de marear. La parola è potente,
suona, evoca, mi smuove.
Stavo accumulando letture disordinate (ed è un errore
perché ci si perde) poi altre parole: libro maestro, portolano
dei sabbioni, carta prima del Milion… appunti foresti.
Il Milione che conosciamo non è il libro scritto dal suo
autore ma una trascrizione impossibile, un tentativo di
trattenere sulla carta l’immenso paesaggio che Marco Polo
disegna parlando. La tecnica di Rustichello da Pisa modifica
il racconto, ne fa l’«editing», lo ingentilisce, gli dà
una forma necessaria, ma io immagino un racconto orale
debordante che la carta non trattiene.
Così comincio a immaginare un Marco Polo narratore di
Venezia trascinandomi dietro le città invisibili di Calvino,
ma anche fonti più lontane e accumulate nei primi mesi
disorganizzati e incomincio a pernottare a Venezia, ospite
di amici e conoscenti, a misurare le differenze tra Santa
Marta, il Sestriere di Cannaregio, Castello e la Giudecca;
tra ruga, riva, calle, ramo e fondamenta.
Giro con un registratore in tasca e prendo appunti sul
quaderno di lavoro, passo mattine nella terra di nessuno
del Tronchetto dove gli abusivi agganciano i turisti e li impacchettano.
Mi faccio raccontare la Venezia dei comitati antisfratto,
ma anche la giornata di un trasportatore di merci su un
mototopo, il furgone dei canali.
Prendo lezioni di voga molto, molto approssimative e
uso i vaporetti non per andare da qualche parte, ma per
ascoltare chi ci viaggia.
Non so ancora come montare questi materiali, non ne
ho proprio idea, cerco anzi di non pensarci affatto.
Mi riempio di un paesaggio che prima o poi dovrò raccontare
per non scoppiare, disegnare a parole come Marco
Polo con Rustichello da Pisa. Più o meno.
Seguendo il quaderno trovo degli appunti di giugno ’96.
In Europa il cielo ha sempre una cornice; per sapere quanto è
grande il continente dove ti trovi devi guardare il cielo e non la
terra.
L’aria dei continenti ha nuvole più grandi e ce ne stanno di
più dentro il tuo sguardo. Se stai su un’isola piana le nuvole vanno
a cerchi o, se l’isola è alta, riposano sulla cima come uccelli stanchi
di mare.
L’Europa ha cieli più piccoli tranne in rare giornate di aprile.
Per capire dove inizia l’Oriente devi camminare per settimane
e mesi verso l’alba finché il cielo non diventa prateria.
C’è in tutto questo lavoro teatrale un andare verso un
altrove senza allontanarsi troppo da casa. Volevo tenere insieme tempi lontani e luoghi lontani. Mi ci è voluto del tempo
per addomesticare i voli pindarici e costringermi a volare
basso, ma già dalle prime volte che ho raccontato in pubblico,
ho capito che non erano importanti i riferimenti, gli
autori e le fonti. Lo erano per me, per costringermi a inventare
su basi documentate, ma era altrettanto importante riportare
con precisione scene, quadri, mestieri, figure umane
di una città come antidoto a una Venezia-cartolina anche
se con un pedigree illustre.
Nel quaderno ci sono dei canovacci con indicazione del
luogo per il quale sono stati composti, ogni canovaccio non
occupa più di una facciata o due perché dovevo tenerlo
d’occhio per non perdermi.
Le cose sono indicate per argomenti da trattare. Si potrebbe
dire che è una scaletta e non un canovaccio, ma c’è
una parola che ho usato solo per questo spettacolo che dice
come ho lavorato a costruirlo: tappeto.
Il canovaccio è diviso non in scene, ma in tre-quattro
tappeti, come nel canovaccio di Mezzocorona (Tn).
tappeto 1
La città-nave / Piantare pali in barena.
6 ore cala, 6 ore cresce.
tappeto 2
Passaggio a nordovest.
Da Piazzale Roma/Tronchetto/Ferrovia.
La città faticosa dei turisti a terra.
Filippo Tommaso Marinetti.
Tappeto 3
Il molo.
La porta a sudest.
Vaporetti e città in acqua.
Moto ondoso.
tappeto 4
I vecchi, gli sfratti.
Quello che resta.
Mototopo.
I tappeti vanno intrecciati oralmente cercando di dare
ritmo, cadenza fino a costruire un arco narrativo solido. Nel
Tappeto 1, ad esempio, si inseriscono gran parte delle notazioni
storiche sulla costruzione di Venezia, note di architettura
e urbanistica. Nel Tappeto 2 sviluppo il punto di vista
della terraferma e i rischiosi, a volte comici, tentativi di
normalizzare Venezia per renderla «comoda».
La differenza con una scrittura di racconto è semplice
da capire, non c’è una sequenza temporale, non ci sono
concatenazioni drammaturgiche di causa ed effetto. È diverso
da un monologo, questo non è un flusso di pensieri
che si comunicano, gli argomenti necessitano di spiegazioni
e le parole avrebbero bisogno di esser tradotte perché
a volte suonano incomprensibili, ma non perché in dialetto,
piuttosto perché riferite a cose di cui la terraferma non
ha esperienza.
Anche chi vive a Treviso, dove sono cresciuto, a venticinque
chilometri da Venezia, non conosce il significato
di molte di quelle parole.
Ma il teatro non deve essere troppo pedante, gli argomenti
non vanno trattati per essere spiegati, a questo basta una
conferenza. Serve quindi un modo di evocare, mostrare, concatenare,
di fare strati, costruire una mappa per orientarsi.
Ogni serata con il pubblico diventa così occasione di
intrecciare i fili sempre più lunghi, provando a rifare il disegno
simile, ma mai uguale alla volta prima.
Il disegno più complesso è interessante, ma serve un
equilibrio tra le parti.
Il primo tappeto si sviluppa più degli altri nell’estate
del ’96. Nel quaderno di lavoro trovo la trascrizione sbobinata
in cui a un certo punto il soggetto è diventato Venezia
stessa, una specie di coscienza che ricorda le ferite
e la grandezza. Un’esagerazione, certo, sul filo della retorica
e me ne accorgo, ma è interessante quel testo ridondante
e lungo per capire come le parole trascinano.
tappeto 1
Maremma = Barena.
La voga in Laguna: i fiumi.
6 ore cala, 6 ore cresce.
Pianta il remo: prima casa, legni e case leggere (Zacinto).
Fuoco Pfff!
Altre case più forti in pietra → fondazione muri.
Case-fondaco → come galere → ponti d’abbordaggio.
Rete di reti, scorrono le attività → far masserie.
Traslochi interni di botteghe che si mette vicine per somiglianza.
Costruzioni di scuole – arsenali – botteghe – fabbriche.
Leggi, leggi → una repubblica.
Tintori e conciai alla Giudecca, via le spusse.
I mercati all’isola rialtina con i magazzini e le dogane.
I conventi sparsi per le isole.
I governi a San Marco.
L’arzanà della Repubblica giù, dov’era solo palme e acqua.
E quelli del vetro, che fa fuoco pericoloso, tutti su un’isola a parte,
e distante.
Un’altra isola sarà solo di armeni.
(Gli Ebrei come stranieri bisognerà mandarli a stare tutti insieme
in Geto novo, che è come dire un castello).
Altre isole per il Lazzaretto.
I quartieri etnici, i fondaci, conventi foresti ci sono in tutte le città
mediterranee, a Genova, a Pisa, a Cagliari come a Costantinopoli,
Sarajevo o Alessandria.
Il Geto de rame, una fonderia, dà il nome universale al quartiere
per gli Ebrei.
Era così piccolo il ghetto vecchio che le case veniva divise per farci
stare tutti gli Ebrei. Succedeva di trovare una casa dentro una
casa, dentro una casa.
La città cresceva ma non c’era spazio per espanderla e così cresceva
verso l’alto → fa la sua comparsa un nuovo concetto edilizio:
la patronia dell’aere.
L’università dei levantini viandanti vende l’aere che è sopra le camere
sue al signor Josef Sachi, loro dirimpettaio, per 225 ducati,
così nessuno potrà costruire sull’aria del signor Sachi che in questo
modo avrà sempre una bella vista e tanta luce.
[…]
Rialto.
Tutte le merci da fora deve passar dalla dogana Maris, all’imbarco
del Canalasso, davanti al molo.
Sulle rive senta la magistratura, controlla i carichi, mette imposte.
Il sale è monopolio.
Il dazio sul vino si riscuote sulla Riva del vin a Rialto.
Il dazio del carbon e legname alla Tavola dei lombardi.
Vino, olio, pepe, panni, lana, sete alla contrà di San Giovanni.
Ferro, piombo e stagno a San Matteo.
In fondo all’isola rialtina il fondaco della farina.
Da qui le merci sbarca in insula infrapontes e va vendute nei mercà
particolari.
Alcuni scarica direttamente nell’androne e nelle volte a pianoterra
delle case dei mercanti, altri vende dalla barca a quei che passa,
i forestieri può vendere solo dentro i suoi quartieri o fondaci.
Il cuore di Rialto si raggiunge dal Ponte mobile che la mattina presto
viene attraversato da migliaia di persone: nobili, forestieri, poveracci…
[…]
Rialto è anche la city dei traffici marini dove si investono capitali, ma
la city spussa.
Spussa de peoci, bisati, baicoli, seppie, baccalà, aringhe in sal, canocie,
moleche, gransi.
Spussa de castradina, di porco fresco, sanguinacci, salsicce, sorpresse,
luganeghe, galline, oche, anatre, pollastri sbollentati con le piume, che
pelarli a caldo…
È difficile progettar commerci intorno al mondo in questo casino
d’ambulanti, mastelli di olive, sacchi di fagioli, piccioni che vola
alti nei canestri già infilzati negli spiedi, agnelli appena sgozzati e
appesi, frittoini, bacari, polentine fritte, ovi sodi, tramezzini che
ti impediscono di pensar con la testa (voci ambulanti).
C’è un cliente armeno, due piazzisti turchi, c’è un gruppo di tedeschi
che potrebbero diventar buoni clienti, c’è un vescovo e
qualche principe che cerca navi a noleggio per una crociera bellica
verso il Santo Sepolcro, c’è da trattare un po’ di ori, quadri e
schiavi bizantini che arriva dritti dritti dal sacco di Costantinopoli.
Non c’è traffico che non si possa fare, basta che la Repubblica abbia
la sua parte, il suo onesto profitto da una parte e possa dir la
sua sul prezzo.
Saoneri, scoacamini, savateri, scoellini, stramazzeri, strazzaroli ebrei,
spezieri, naranzieri, erbaroli, frutaroli, turchi, becheri, pelestrini, giudecchini,
armeni, chioggiotti, sanpierotti, realtini, napuli, campagne,
foresti.
[…]
Di tutto questo solo una sintesi è rimasta nei racconti
più recenti e forse è un peccato, ma un racconto così non
può durare più di due ore. Volevo tenere insieme più punti
di vista e dare peso al presente come al passato.
Di quanto è accaduto al Milione dalla fine dell’estate
del 1996 fino alla diretta su Rai Due dall’Arsenale di Venezia
nel settembre 1998, si trovano spiegazioni e tracce
sia nel testo di Francesco Niccolini contenuto in questo
quaderno sia nel documentario Questo radichio non si toca
pubblicato da Stile libero.
Volevo solo dire due parole ancora sul video.
Nella costruzione del film abbiamo usato un po’ lo stesso
criterio, accumulando immagini e riprendendo più volte
il racconto in luoghi diversi; a volte con il pubblico e a
volte senza. Non è facile raccontare a una telecamera, è
meno stimolante che farlo davanti a delle facce attente,
ma ho provato a farlo usando la memoria di quel che in
centinaia di volte, in tanti posti, davanti a tante facce diverse,
ho fatto senza mai ripetere la parte a memoria.
La forma del racconto nel film è una di quelle possibili,
è un tappeto in cui immagini, musica e parole disegnano
una mappa-labirinto in cui da ogni punto si può andare
in direzioni diverse.
Il Milione, quaderno veneziano è una mappa come quelle
antiche dove accanto alle linee delle coste dei fiumi erano
scritte parole utili ai viaggiatori, dove erano disegnate
cose come animali, case, navi e figure umane.
A che servivano le figure umane sulle mappe? A rassicurare
il viaggiatore, a dirgli: non sei tu il primo a venire
fin qua, stai tranquillo, non vedi, c’è anche lui, è ancora
vivo, puoi venire anche tu. Ma noi oggi abbiamo una visione
satellitare del mondo, impariamo da Google com’è
fatta una strada in Arizona senza muoverci da casa.
Ci orientiamo con il telefono e le mappe sembrano romantiche
e inutili.
A me piacciono le mappe, ho voluto fare uno spettacolo-
mappa dedicato alla capacità di certi uomini di costruire,
certo, ma anche di conservare, di rispettare e dare valore
a ciò che non ha prezzo. Non ho imparato a vogare
come loro e porto malissimo la barca che va storta e gira
in tondo, ma a un certo punto ho detto: «Mi fermo», non
ho finito, ma non può esserci finale.
E anche voi esigenti, se guardando la Laguna sulla vostra
mappa o sul Gps di ultima generazione vedete uno che
va avanti girando, quello per adesso sono io, e io qua son
rivà e qua me fermo. Anche perché non ho mai pensato nella
vita che per procedere bisogna andare in linea retta.
È la frase finale del testo teatrale e anche del film. C’è
nel video e nel libro, per il resto fra testo pubblicato e film
ci sono corrispondenze sparse e discrepanze varie. Il copione
contiene molte scene tagliate o poco rappresentate, c’è
anche roba di cui mi ero dimenticato, ma non c’è tutto. Qualcosa
sono anche riuscito a buttarlo, meno male.
giovedì 23 giugno 2011
Istituto Venezia alla TV austriaca ORF
In marzo una troupe della TV ORF è stata da noi per realizzare un documentario a puntate dedicato alla nostra scuola.
Ecco il primo filmato andato in onda la sera del 26 marzo.
Ovviamente è in tedesco e non tutti potranno capire il testo audio.
Intanto godetevi le immagini, magari riusciremo a realizzare una nuova versione con i sottotitoli. Buona visione!
Maddalena
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documentari Veneto
mercoledì 8 giugno 2011
Vincenzo Pipino
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Aveva appena 6 anni, Vincenzo Pipino, detto Encio, quando il resto del mondo decise di chiuderlo fuori per sempre, mettendo fra sé e lui porte blindate a cinque mandate, impianti d’allarme, telecamere di sorveglianza, fotocellule, vetri antisfondamento, grate. Il fattaccio accadde nella scuola elementare Armando Diaz, durante la ricreazione. «Noi, figli dei poveri, denutriti, braghe corte e geloni sulle mani, eravamo in ultima fila, perché il maestro riservava i primi banchi ai figli dei sióri che lo riempivano di regalini», e a Venezia, per antonomasia la città dei «gran signori», ce n’erano tanti anche allora di sióri , oh se ce n’erano. «Il capoclasse, rampollo di un farmacista del sestiere Castello, veniva in aula col cestino della merenda pieno d’ogni bendidio. Quel giorno addentò per ultima una mela. Io avevo un buco nello stomaco grande così. Gli chiesi: vànzeme almeno el rosegòto, avanzami il torsolo da rosicchiare. “Toh, se lo vuoi, raccoglilo”, rispose con disprezzo, e lo gettò sul pavimento. Non ci vidi più. Gli saltai addosso. Finendo a terra, si morsicò la lingua. Il sangue gli zampillava dalla bocca. Mi espulsero a vita dalle scuole di ogni ordine e grado».
In realtà stavano per rinchiuderlo all’Istituto medico psicopedagogico, «un nome che ancora oggi mi fa venire la pelle d’oca», ma sua madre Cesira tanto brigò per sottrarlo a quella sorte infelice che alla fine riuscì a trovargli un lavoro ancora più infelice: aiutante in un’agenzia di pompe funebri nei pressi di Santa Maria Formosa. «A 8 anni tutto il giorno tra morti da vestire e bare da spolverare. Dica un po’,lei avrebbe resistito?».Poi garzone di pasticceria: «Dal banco il titolare mi ordinò: “Fischia!”. E io non ci riuscii, perché avevo la bocca piena. Dovevo pur sfamarmi. Piombò in laboratorio, mi massacrò di botte e mi cacciò». Poi apprendista fotografo. Poi... Poi la strada diventò la sua scuola. Diciamo pure l’università: 3.000 furti tra musei e abitazioni private; 50 gioiellerie svaligiate; una media di 30 quintali d’oro (che lui chiama polenta per via del colore) rubati ogni settimana in giro per l’Europa, «a quel tempo valeva 370 lire il grammo, ne avevo talmente tanto che ero costretto a darlo in conto vendita». E una quindicina di arresti, di cui tre in flagranza di reato («mai in Italia, due volte a Losanna e una a Düsseldorf»), 300 denunce, 15 condanne, un’evasione spettacolare da un penitenziario svizzero del Cantone di Vaud.
La sua specialità erano le collezioni d’arte. Non c’è dimora storica affacciata sul Canal Grande o su piazza San Marco che sia stata in grado di resistergli. Non c’è santuario del bello che non sia riuscito a violare, a cominciare dal Palazzo Ducale, primo e unico ladro nella storia a espugnarlo, per finire col museo Correr. Sulla galleria privata di Peggy Guggenheim mise le mani addirittura due volte nello stesso anno, il 1971, prima a febbraio e poi a dicembre, sempre assistito dalla batteria, come la chiama lui;i sette uomini d’oro, come li chiamavano allora i cronisti di nera suggestionati dalfilm di Marco Vicario con Rossana Podestà. Perché servono dei complici - Gino, Pòpe, Cippo le Tabarin, Marcian, My Bob e Antoine de la Rose - quando devi trafugare 15 dipinti al primo giro e 17 al secondo, «lei non ha idea di che cosa significhi portarsi via sotto il braccio un Picasso, un Magritte, un Balla, un Kandinskij, un Braque, due De Chirico, due Klee, due Malevich, due Ernst, due Moore...».
Eppure nessun capolavoro è mai uscito da Venezia. Al massimo è finito sepolto per pochi mesi in un campo a Chirignago, 15 chilometri, lungo la strada Miranese. «Ho sempre restituito tutto, e perfettamente integro, magari in cambio di un piccolo contributo», volgarmente detto riscatto. «La questura ci faceva la sua bella figura e noi mangiavamo. L’importante è che i tesori della città non andassero perduti. Se il patrimonio artistico della Serenissima è ancora al suo posto, ruberie di Napoleone a parte, lo si deve all’amorevole vigilanza che il qui presente Pipino Vincenzo esercita da sempre. Finché avrò respiro, malavitosi foresti qui non ne arriveranno».
Il ladro più onesto d’Italia sintetizza la sua vita così: «Sono rimasto in prima elementare per mezzo secolo». Destino segnato quando ti capita di nascere in calle Malatin, sinonimo toponomastico di pellagra, rachitismo, pediculosi. Ha imparato a leggere e scrivere in galera. Il tempo non gli è mancato: su 67 anni di vita, 25 li ha passati dietro le sbarre, avendo come compagni di detenzione gli Strangio, i Graviano, Francis Turatello, Michele Zaza, Valentino Gionta e Vincenzo Scarantino, il pentito della strage di via D’Amelio in cui morì il giudice Paolo Borsellino, ma anche il professor Toni Negri, che è rimasto suo grande amico, e Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate rosse. E quelli che non ha conosciuto dentro, li ha frequentati fuori: Enrico De Pedis, detto Renatino, il capo della banda della Magliana oggi sepolto in una chiesa di via della Conciliazione; la sua amante Sabrina Minardi; il suo braccio destro Danilo Abbrucciati; Antonio Spavone, detto ’O Malommo, che guidava la camorra prima di Raffaele Cutolo. Ma senza mai possedere un’arma, senza mai non dico torcere un capello ma anche solo farsi vedere dalle sue vittime. Pipino è sposato dal 1968 con Carla. «Purtroppo mia moglie non poteva avere figli. Però abbiamo cresciuto tanti nipoti perbene: uno vicedirettore di banca, uno laureato in scienze politiche, una proprietaria di un’agenzia di viaggi».
Suor Pierina,l’angelo custode dei reclusi nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore, gli fece conseguire il diploma di terza media con un esame cumulativo, senza bisogno di frequentare le lezioni. Adesso Encio, autodidatta coltissimo e un po’ filosofo,è diventato scrittore. Ha pubblicato Rubare ai ricchi non è peccato ( Edizioni Biblioteca dell’Immagine) e dalle pagine di Facebook dispensa trucchi del mestiere e consigli di vita. Quello che gli sta più a cuore è rivolto ai giovani e vuole dettarlo qui: «Allontanatevi. Non imitatemi. Non fate la mia vita: quando starà per finire, come ora succede a me, vi accorgerete di stringere fra le mani un affettuoso e intimo nulla».
Che cosa vuol dire nascere a Venezia? «È un privilegio. Abito alla Giudecca. Se mi dicessero di traslocare altrove, morirei. Oltre il ponte della Libertà c’è solo campagna. Compresa Parigi».
Come si diventa ladri?
«Per necessità. Strada facendo si trasforma in virtù. La mia generazione ha sempre rubato onestamente. Non ho mai tenuto in tasca neppure un temperino. Una volta andai a ripulire la casa di una nobildonna veronese, Bianca Bevilacqua mi pare che si chiamasse. Nella cassaforte trovai un plico con scritto sopra: “ Da aprire solo dopo la mia morte”. Un malvivente qualsiasi l’avrebbe aperto subito, chissà che cosa poteva contenere. Io invece lo lasciai intatto. Da ciò la contessa dedusse che fossi un ladro gentiluomo e fece pubblicare un’inserzione a pagamento su tutti i giornali d’Italia,offrendomi 15 milioni di lire in cambio della refurtiva. Purtroppo i gioielli erano già stati venduti, altrimenti glieli avrei restituiti volentieri. In particolare due grossi orecchini con diamanti e smeraldi li vedo indossare da una famosissima attrice italiana ormai avanti con gli anni».
Ricorda la prima cosa che ha rubato?
«Un bidone del latte da 50 litri. Non era facile, a 8 anni, farlo rotolare fino in calle Malatin. Ad attendermi c’erano tutte le mamme, compresa la mia. Da quel giorno assicurai il rifornimento gratuito ai poveri del sestiere. Il bidone d’alluminio lo schiacciavo e lo vendevo a un robivecchi di calle de la Pegola. Finché quattro poliziotti non mi aspettarono al varco. Fui portato in questura e bastonato. Allora funzionava così: ti pestavano. Ormai ero segnato a vita».
Avrebbe potuto cambiare vita.
«Che cosa fa il procione? Si gratta e ruba. Lo arrestano il procione? No. E allora che colpa ne ho io se provo questo continuo prurito alle mani? Da fornaio portavo il pane all’Arsenale. Vidi la cambusa aperta e mi caricai un sacco di zucchero nella gerla, saranno stati 30 chili. La guerra era finita da poco, lo zucchero si vendeva a grammi, come la droga. “Semo sióri!”, esclamò mia mamma, una veneziana molto pratica, vedendomi arrivare. Alla sera rincasò mio padre Antonio, pugliese tutto d’un pezzo di San Nicandro Garganico. Mi chiese: “Chi te l’ha dato?”. L’ho trovato, risposi. Immaginarsi se potevo farla a lui, un nocchiere. Sul sacco c’era stampigliato “Marina militare”, ma io non me n’ero accorto, perché non sapevo né leggere né scrivere. “Adesso lo riporti dove l’hai rubato”, mi ordinò. Mia nonna Nene si sedette sul sacco: “Eh no, el zùcaro no’ va fora de qua!”».
Il primo colpo grosso a che età?
«A 14 anni. D’estate ci infilavamo sotto i capanni del Lido e bucavamo col trapano le assi del pavimento per sbirciare Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Marisa Allasio che si spogliavano. Uscivamo da lì sotto alle 8 di sera con gli occhi fuori dalle orbite. D’inverno mi venne un’idea: svitare le assi in modo da poterle sollevare nella bella stagione mentre i bagnanti erano stesi al sole. Dai portafogli rigonfi portavo via solo un po’ di soldi, quanto bastava per comprarmi i primi jeans da Vittadello. Un’estate adocchio un americano che esce dall’hotel Des Bains con la famiglia. Aveva un rotolone di dollari nel taschino della camicia. Corro alla Standa, acquisto un paio di bermuda e raggiungo a nuoto la spiaggia dei miliardari, per non dare nell’occhio. Attacco bottone con John, il figlio scemo dell’americano, lo invito a giocare a calcio, dopo un po’ un tiro finisce dritto nel capanno. Con la scusa di recuperare il pallone, mi fiondo dentro, rubo dalla camicia tutti i dollari, m’infilo il malloppo nelle mutande, poi fingo un attacco di cacarella e me la svigno. Saranno stati 200.000 euro di oggi. Il capo della Mobile, Angelo Sciuto, andò a colpo sicuro. Sospettava da tempo che il predone del Lido fossi io. Mi ritrovai a passare la notte nel carcere minorile delle Zattere. L’indomani vennero tre poliziotti a interrogarmi. Uno di loro cominciò a spegnere il suo sigaro sul mio corpo, ho ancora i segni delle bruciature sulla pancia e sull’inguine, vuole vederli?».
Lasci perdere. Continui.
«Io urlavo per il dolore, ma non confessavo. Non volevo arrecare questo dispiacere a mio padre. Sette mesi di galera».
E una volta scarcerato?
«Una trentina di colpi in giro per l’Europa. La banda del buco l’ho inventata io, insieme con i miei complici, altro che Peppe er Pantera, Tiberio, Ferribotte e Capannelle dei Soliti ignoti di Mario Monicelli. Si sceglieva un appartamento momentaneamente disabitato sopra una gioielleria, si toglievano le mattonelle avendo cura di non far cadere i calcinacci giù di sotto e poi si aspettava la pausa pranzo, quando i preziosi non vengono chiusi in cassaforte. Con questa tecnica demmo l’assalto all’oreficeria Poncini in boulevard Saint Germain, a Parigi, passando attraverso l’atelier di Pierre Cardin. Purtroppo ci fu una soffiata da Venezia».
Di chi?
«Di un tizio che, per avere campo libero con la moglie di uno di noi sette, doveva far finire in carcere il rivale in amore».
Era più semplice svaligiare la casa dello stilista Cardin in calle dei Muti o Baglioni, vicino al ponte di Rialto.
«Nel campo della moda feci visita all’abitazione di Luciano Benetton, a Ponzano Veneto, ma non trovai niente da portar via, perché non era ancora famoso. Quanto alle dimore patrizie sul Canal Grande, le ho visitate tutte, dai Brandolini d’Adda ai Persico, fino ai discendenti di Azzo degli Azzoni. I Donà delle Rose li gò rovinà: cinque o sei residenze. Facevo fessa la giusta (nome della polizia nel gergo della malavita veneziana, da giustizia, ndr) usando la gondola. I poliziotti tenevano d’occhio solo i motoscafi. S’è mai visto un ladro che scappa remando?».
Non si curava dello shock che provocava nelle famiglie profanando l’intimitàdelle loro abitazioni?
«Semmai lo shock lo provavo io nel vedere com’erano tenute. Da quella di un grande industriale, in piazza San Marco, uscii con i calzini da buttare, tanto era sporca. Che disordine! Un brillante grosso così abbandonato sul bidè, pellicce per terra, orologi di gran marca sparsi qua e là».
Con quale criterio sceglieva gli obiettivi?
«Che domande! L’assenza del proprietario. Un giorno del 1998 esco dall’Harry’s Dolci della Giudecca - sono golosissimo di pasticcini - e mi scappa l’occhio su un palazzo con le imposte chiuse, dall’altra parte del Bacino San Marco, alle Zattere. Vado. Leggo i tre cognomi sui campanelli: Collalto-Castillo, Giustinian, Donà delle Rose. Il primo mi è nuovo. Corro alla biblioteca Marciana a far ricerche e trovo un indizio: contessa Cecilia Collalto Giustinian in Falck. È come una frustata alle mie sinapsi: acciaierie Falck uguale Alberto Falck, collezione Falck uguale Giovanni Antonio Canal, Canaletto uguale Fontegheto de la farina . La tela dei miei sogni».
Perché?
«Raffigura il piccolo magazzino che sorgeva sul molo di San Marco. In primo piano si vede un ponte che fu distrutto da quelle carogne degli austriaci. Sullo sfondo la Punta della Dogana. Un dipinto di vivace puntigliosità, immerso in quella luce dorata tipica di alcune giornate settembrine veneziane che solo il Canaletto riusciva a rendere con tanta abilità. Decido di andarmelo a prendere. Entro e mi ritrovo in una pinacoteca: Masaccio, Tintoretto, Mantegna, Sebastiano del Piombo, Simone Martini. Bisogna fare una cernita, rispettare la storia. Mentre son lì che ragiono con i miei complici, alle 3 di notte arriva Alberto Falck. Oh, casso! Invece di scappare,aspetto che siritiri nell’ala più lontana del palazzo. Guardo dal buco della serratura e lo vedo seduto davanti alla ribalta di un secrétaire del ’700, intento a scrivere con una Montblanc. Via libera. Un colpo da 20 miliardi di lire».
Non è assurdo rubare una tela notificata, valutata allora 4 miliardi e giudicata invendibile dai critici d’arte?
«Ha mai provato a tenersi un Canaletto in casa per un mese? El sorideva. Xera parfìn più lucido. Un cuore che pulsava. Qualche tempo dopo telefonai all’ufficio di Milano dell’industriale dell’acciaio: sono quello che ha rubato il Canaletto a Venezia, vorrei parlare con Alberto Falck. Alla centralinista tremava la voce: “Rimanga in linea”. Me lo passò. “Che cosa vuole? Parli pure”, mi disse con tono seccato. So che lei ha fatto molte opere di bene, l’ho vista insieme con Papa Wojtyla nella foto in cornice: perché non dona il Fontegheto allacittà di Venezia? “Il dipinto è mio e ne faccio ciò che voglio”, rispose. A dire il vero adesso il dipinto è mio e potrei anche ridurlo in pezzettini, replicai. Tacque per un istante: “Certo, potrebbe distruggerlo. Ma da quel poco che ho potuto capire di lei, sono sicuro che non lo farà”. E riattaccò. Glielo feci ritrovare a Roma e finii in galera per sette mesi. Il capo della Mobile, Vittorio Rizzi, e il sostituto procuratore, Maria Bianca Cotronei, ebbero la loro bella targa. A me Falck inviò alcune casse di vini dei Collalto. Tre anni dopo dimostrò d’avermi dato retta: fece esporre la tela in occasione della strepitosa mostra sul Canaletto alla Fondazione Cini. Ero confuso tra la folla all’inaugurazione. Falck mi riconobbe. Lo salutai e lui ricambiò con un cortese cenno del capo. Ogni tanto continuo a sentire il Fontegheto che mi chiama. Mi dice: “Portami via da questo oblio”».
Mai sognato di rubare La Gioconda , come fece l’imbianchino Vincenzo Peruggia nel 1911 al Louvre di Parigi?
«Compii un sopralluogo: le opere venete che m’interessavano erano di dimensioni troppo grandi. Però alle Gallerie dell’Accademia ho avuto fra le mani La tempesta del Giorgione. È l’unica che Napoleone non è riuscito a fregarci».
Ma che senso ha assaltare per due volte nel giro di dieci mesi la Peggy Guggenheim Collection?
«Ma alora no’ ti g’ha capìo un casso! Era un gioco delle parti che giovava a tutti. I funzionari di polizia recuperavano la refurtiva, finivano sui giornali, ricevevano encomi solenni e facevano carriera. Io mi prendevo un piccolo contributo sulla riconsegna, le spese di trasporto merce, diciamo. Il codice non scritto era: mai portar via la roba da Venezia, mai arrecare danni alle opere d’arte. Rispettato quello, ciascuno dei protagonisti aveva la sua bella convenienza. E poi c’erano anche furti su commissione che non potevi rifiutarti di eseguire».
Sia più chiaro.
«Nel 1991 ero alla Marciana a compulsare i miei amati librid’arte.Mi avvicina un luogotenente di Felice Maniero: “Il presidente vuole vederti”. Ma ci elo ’sto presidente? El còtola? Io il boss della mala del Brenta lo chiamo così, perché da piccolo stava sempre attaccato alla sottana della madre. Il suo scherano mi spiega che Maniero ha bisogno di rubare un pezzo importante a Ca’ Rezzonico per poi fare uno scambio con lo Stato e ottenere il rilascio di un cugino finito in chèba ( gabbia , metonimia per carcere, ndr) . Potevo dirgli di no? Però ho preferito scegliere il Palazzo Ducale. Una sfida con me stesso, visto che non aveva mai subìto furti. Nella Sala dei Censori ho notato una Madonna col Bambino del XV secolo, un olio su tavola uscito dalla bottega di Alvise Vivarini. Mi sono nascosto nelle prigioni. Casa mia. E durante la notte ho fatto al contrario il percorso del detenuto Giacomo Casanova: dai Piombi a Palazzo Ducale attraversando il Ponte dei Sospiri. Sono uscito per calle degli Albanesi con la Madonna. L’ho consegnata a Maniero senza averne in cambio neppure una lira.Avanzai un’unica pretesa: che la restituisse intatta. Si vede che ancora non bastava a far scarcerare il cugino arrestato per traffico di droga, perché in quello stesso anno El còtola fece rubare il mento di Sant’Antonio custodito nella basilica di Padova».
Lei ha «visitato» a modo suo anche il museo Correr.
«Nel 1992 un certo Valerio mi aveva offerto l’equivalente di 200 milioni di lire in marchi per portar via tutti i quadri di Giovanni Bellini. Io pensavo che si trattasse del solito furto con richiesta di riscatto. Ma durante il colpo chiesi: per chi stiamo lavorando? Quello mi rispose: “Penso che tu l’abbia sentito nominare. Si chiama Arkan. L’ho conosciuto anni fa in galera. Oggi è presidente di una squadra di calcio a Belgrado”. Arkan? Serbia?Ma certo! Era il soprannome di Zeljko Raznatovic, inseguito dall’Onu per crimini contro l’umanità commessi durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Figurarsi se un macellaio del genere avrebbe riconsegnato i Bellini a Venezia! Dissi al mio complice: vieni con me, devo fare una telefonata urgente. Entrai in una cabina e chiamai il 113».
Dei sette uomini d’oro, che fine hanno fatto gli altri sei?
«Tre sono passati a miglior vita, uno di morte violenta, ucciso dalla mala. Il quarto è diventato un antiquario onestissimo. Il quinto fa il pensionato. Il sesto è un cameriere e un letterato ammodo».
Il suo periodo di detenzione più lungo?
«Sei anni, per cumulo di condanne».
Qual è stata la prigione peggiore?
«Viterbo. Massacravano i detenuti. Vidi sei sette guardie carcerarie ammazzare a calci e pugni un indiano che aveva rifiutato il cibo gettandolo sul pavimento. Approfittai della chiamata di correo in un processo contro Maniero per denunciare il fatto a un pubblico ministero di Venezia. Quattro pagine di verbale in cui, per la non dispersione degli elementi probatorie per la certezza del fatto, chiedevo un immediato intervento. Non accadde nulla di nulla».
Come riuscì a scappare dalla Maison de sécurité élevée de la Plaine de l’Orbe, in Svizzera?
«È un penitenziario per detenuti pericolosi, costruito verso la fine dell’Ottocento dagli stessi reclusi. Il direttore mi disse: “Signor Pipino, se lei ha intenzione di evadere, le consiglio di farsi crescere un paio d’ali come questo uccellino”, e mi indicò un canarino che teneva in una gabbietta. Da quel momento divenne il mio pensiero fisso. Schiacciando il cappuccio di una penna pubblicitaria dell’hotel Ermitage di Montecarlo, riuscii a ricavare una chiave. Nelle suole delle scarpe custodivo un seghetto. Scrissi al mio aguzzino: “Come ha visto, monsieur le directeur, io sono rientrato a Venezia passando per i suoi coppi e senza le ali del suo canarino”».
Per la legge adesso lei che cos’è?
«Un delinquente abituale. Quindi di primo grado. Dopo di me vengono i delinquenti professionali, secondo grado, e i delinquenti per tendenza, terzo grado. Anche quando non faccio niente, la polizia si chiede: “Dove xelo e cossa sarà drìo far?”. Insomma, so che sono destinato a morire in carcere. Sicuramente. Me lo sento nell’anima».
A sua moglie che ha passato la vita da sola, ad aspettarla a casa, non ci pensa?
«Mia moglie è una santa monogama. Ha sempre lavorato, prima come vetraia a Murano, dove fece anche un lampadario per la principessa Grace di Monaco, e oggi come cameriera».
Quand’è uscito di prigione l’ultima volta?
«Due anni fa. A lei parrà strano, ma in galera sono stato una persona migliore. A Rebibbia mi chiamavano il sindacalista delle carceri. Ero l’avvocato dei detenuti. Ne ho fatti uscire più io che gli indulti. Sono diventato un super esperto in esecuzione della pena».
Cioè?
«Deve sapere che l’8% dei detenuti è dentro ingiustamente per cumuli giuridici in eccesso. Lì intervenivo io. In otto mesi ho fatto togliere 750 anni di carcere. Sa quanto costa allo Stato un detenuto? Circa 350 euro al giorno. Faccia un po’ lei i conti».
Sono 273.750 giorni di detenzione cancellati.
«Appunto. Che moltiplicati per 350 euro al giorno fanno quasi 100 milioni. Sono venuti gli ispettori di via Arenula a complimentarsi: “Lei ha fatto risparmiare al ministero della Giustizia un sacco di soldi”. Che poi bisognerebbe anche chiedersi perché un detenuto costa 350 euro se le imprese che forniscono il vitto si accontentano di appena 1,40 euro al giorno».
Chiediamocelo.
«Ma è ovvio! Per quella cifra il cibo è scarso e scadente. Quindi il detenuto è costretto a procurarsi il sopravvitto a sue spese. S’è mai chiesto chi sono quelli che lucrano sugli spacci interni dei penitenziari? S’è mai chiesto perché la costruzione di una cella di 3 metri quadrati viene a costare al contribuente 175.000 euro, quanto un miniappartamento?».
Ho letto che il suo assistente nella predisposizione dei ricorsi era Mario Piergrossi, condannato per aver ucciso la nonna a forbiciate.
«L’ho fatto scarcerare, ora è un uomo libero. Fosse dipeso da lui, non avrebbe neppure presentato l’appello.Un nichilista che leggeva e rileggeva Delitto e castigo . Tutto il contrario di me. L’ho convinto ad aprirsi,a parlare».
Una decina d’anni fa domandai a Luciano Lutring, il solista del mitra: che cos’è per lei l’onestà? Mi rispose: «Eh, l’onestà! Una roba astratta, non la vedi, nemmeno nelle persone cosiddette perbene. Rapinavamo 100 milioni e la radio parlava di 300. Capito i signori banchieri? Truffavano le assicurazioni. A modo mio credo d’essere stato onesto: spartivo fino all’ultima lira. Ho mai ciulaa i amis. Perché se mi fossi messo a fare il ladro anche con i ladri, che razza di uomo sarei stato?».
«Tutto quello che dichiara il derubato diventa ipso facto fonte di verità. Ma non è mica così, sa? Durante un processo dal quale uscii assolto chiesi a una mia vittima, una discendente del doge Francesco Foscari: mi scusi, ma lei il quadro che le ho rubato dove l’ha preso? Cominciò a farfugliare. Tutto il contrario della Svizzera, dove la polizia per prima cosa vuol vedere le fatture dei beni asportati. Da una gioielleria di Losanna, in avenue de la Gare, uscimmo con 50 chili di oro. Nella denuncia erano diventati 3».
Oggi di che vive?
«Faccio consulenze per i benestanti, gli insegno come proteggere le loro ville dai malviventi. Mi pagano fino a 2.000 euro».
Che genere di consigli offre?
«Evitare le mandate di numero pari alla serratura della porta blindata: o una, o tre, o cinque, e lasciare la chiave nella toppa. Guardarsi dal personale di servizio, dalle badanti, da chi ti viene per casa per qualche lavoro: dietro ogni colpo in 9 casi su 10 c’è la soffiata di un collaboratore infedele. Osservare la presenza di estranei all’esterno dell’edificio: un ladro compie non meno di tre-quattro sopralluoghi prima di agire. E altri trucchi che non posso svelare, per non insegnare il mestiere ai balordi».
È pericoloso avere una cassaforte in casa?
«Più misure di sicurezza adotti e più attiri i mariuoli. Meglio un cartello all’ingresso: “Si avvisano i signori ladri che questa abitazione è già stata visitata tre volte e all’interno non resta più nulla da rubare”. Davanti a un annuncio così, me ne sarei andato persino io».
Qual è il momento più difficile durante un colpo?
«Il furto più pericoloso è quello che ti sembra perfetto sulla carta. Perché non prevede la rinuncia. Io ho avuto spesso il buonsenso di rinunciare.Rubare è un’opera d’arte, il lavoro più difficile al mondo... Se non lo sai fare. Ci sono due categorie di ladri: i distruttivi e i conservatori. I veneziani appartengono alla seconda, purtroppo sono in via d’estinzione. In giro per musei avevo un decoratore d’interni che dopo il buco provvedeva a un restauro ambientale. Mai lasciato macerie, noi».
Che rapporto ha con i poliziotti?
«Ottimo. Di rispetto reciproco. Ma se mi beccano, non c’è grazia per me».
Pensa che tornerà a rubare?
«Mai dire mai».
Il suo ultimo furto?
«Quello di domani».
Che differenza c’è fra un ladro e un politico?
«Il ladro si dichiara. Il politico dice la verità solo se gli presti una maschera».
Come vuole che la definisca nel titolo dell’intervista? Arsenio Lupin della laguna? Fantomas della Giudecca? Il Gatto che s’arrampicava sui tetti in Caccia al ladro di Alfred Hitchcock?
«Cary Grant l’ho conosciuto di persona. Sicuramente ero un gatto anch’io. Una sera d’estate una signora si svegliò di soprassalto sentendo i nostri passi sulle tegole e s’affacciò da un abbaino: “Mariavergine, ci sio voialtri?”. E noi: non si preoccupi, signora, siamo ladri. “Ah, benón. Bona note”».
Solidarietà fra veneziani.
«Però mi sento più vicino a Robin Hood. Su un ponte c’era un povero mutilato, privo di un braccio, che chiedeva l’elemosina. Mentre stavo per lasciargli un obolo, passa una carampana con una pelliccia lunga fino a piedi, lo squadra e gli dice: “Ma va’ a lavorare!”. L’ho seguita per tutta Venezia,tra calli e campielli, fino a quando la vecchiaccia non è entrata in un portone e ho visto accendersi una luce. Per un mese, sera dopo sera, sono andato lì a farle la posta. Al momento buono sono entrato e ho razziato tutto. Tornato a casa mia,ho scoperto che tra la refurtiva c’era l’urna contenente le ceneri del marito. Vede, io ho sempre trovato il modo di restituire oggetti affettivi rubati per sbaglio, tipo la fede nuziale o la catenina d’oro di un figlio defunto. Ma il liofilizzato di quel poveretto mi stringeva il cuore. Sono andato su un ponte del Canal Grande, ho aperto il sacchetto delle ceneri e gli ho detto: va’, caro, starai meglio libero in acqua che accanto a quella megera di tua moglie».
Non s’è fermato davanti a nulla?
«Non ho mai portato via orologi e oggetti preziosi in riparazione, per non togliere all’orefice anche il lavoro. E non ho mai rubato capitelli o saccheggiato chiese. Da bambino andavo all’oratorio della parrocchia di San Francesco della Vigna. A maggio il prete chiudeva le porte del tempio per non farci scappare e dopo il fioretto serale ci dava il pane imbottito con la marmellata regalatagli dai soldati americani, quella solida che si poteva affettare. Alla fine qualcosa, dentro, ti resta. La possibilità di finire all’inferno, per esempio».
E non teme di finirci?
«Chiesi a suor Pierina: madre, ma è tanto difficile andare in paradiso? Lei mi rispose: “Noooo, Encio. Vieni con me”. Mi portò nella cappella del carcere e mi indicò la finestrella con le sbarre. “Vedi quelle nuvole?Là dietro c’è una banca. Un’altra banca è qui in terra. Alla fine, il direttore tirerà le somme. Se hai depositato tanto sul conto in terra, sei fritto. Ma sei hai messo da parte qualcosa sul conto lassù, sei salvo».
E come la mettiamo col settimo comandamento?
«Non rubare? L’ho sempre rispettato. Ho solo svuotato le tasche di chi aveva rubato prima di me»
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